L’identità è il nucleo essenziale che definisce chi siamo, come individui o come organizzazioni. È un concetto poliedrico, che abbraccia elementi interni come valori, personalità e obiettivi, ma anche aspetti esterni, come percezioni e interazioni con il mondo. Comprendere l’identità significa esplorare il delicato equilibrio tra ciò che siamo e come ci mostriamo. L’identità personale non è solo una questione di “essere”, ma anche di “apparire”. Il modo in cui ci presentiamo al mondo influenza il modo in cui gli altri ci percepiscono e interagiscono con noi.
Per un brand, l’identità rappresenta l’anima dell’azienda. È ciò che lo distingue in un mercato affollato, definendo la sua personalità e il valore che offre ai consumatori. Costruire una forte identità di marca è fondamentale per creare connessioni emotive e durature con il pubblico, deve essere coerente (per garantire fiducia e credibilità) e autentica (per rispecchiare i valori reali dell’organizzazione). Un brand che riesce a comunicare chi è in modo genuino e distintivo ha il potere di creare legami profondi con il suo target.
Capita, per eventi di vita significativi, crisi personali o influenze esterne, di sentirsi disorientati e privi di un senso di identità. Si può avvertire un senso di vuoto, di confusione su chi si è o su cosa si vuole dalla vita. Questo vale anche per i brand che possono perdersi, spesso a causa di strategie incoerenti, cambiamenti di mercato o disconnessione dai valori originali. L’identità insomma è quella che fornisce una direzione, quando la si perde, si rischia di vivere (o operare) senza un centro stabile, rendendo difficile prendere decisioni, ispirare fiducia e costruire relazioni autentiche. Ritrovarla significa tornare all’essenza di ciò che si è o si vuole essere, un processo che richiede tempo, introspezione e coraggio.
Un esempio di un marchio che si è perso è Gap, un’icona della moda casual americana, che ha sofferto negli ultimi decenni per la mancanza di una direzione chiara. Ha perso il contatto con il pubblico più giovane e non è riuscito a differenziarsi in un mercato sempre più competitivo. L’iconico rebranding del logo nel 2010, accolto con critiche feroci, è diventato un simbolo della crisi d’identità del marchio. Ma pensate anche ad un marchio tecnologico come Blackberry che era sinonimo di produttività, sicurezza e innovazione, specialmente nel mondo aziendale. Tuttavia, con l’arrivo di Apple e Android, non è riuscito a evolversi. Il brand ha sottovalutato il valore di un’interfaccia intuitiva e di un ecosistema di app, rimanendo troppo legato alla sua tastiera fisica ed ormai ha un mercato marginale.
Il tema dell’identità mi è venuto parlando con Isabella Bossi Fedrigotti, giornalista e scrittrice, con cui ho potuto fare due chiacchiere a casa di Lella Curiel in occasione del suo pranzo di Natale. A Isabella raccontavo di aver accompagnato mia madre al Politecnico di Milano dove doveva raccontare la sua esperienza di giornalista agli studenti di Ingegneria Meccanica e di come la sua storia avesse in qualche modo illuminato anche me. Vedere un genitore sotto l’aspetto professionale non è sempre facile, ma vederla raccontare con tanta passione la sua storia mi ha fatto comprendere come il lavoro per lei sia importante, soprattutto ora che papà non c’è più”. Raccontavo a Isabella questo aneddoto e allo stesso tempo le facevo notare quanta energia ci sia ancora in questo aspetto della vita di mia madre e lei mi ha detto ” Il lavoro è la sua identità, la porta al suo essere, la rassicura, le fa capire chi è”. Infatti anche lei mi raccontava che sta per terminare un nuovo libro, ma non posso rivelarvi nulla. Abbiamo anche parlato di cucina, di figli, di come passeremo il Natale … lo sapete che è una bravissima cuoca ? La sua specialità sono i dolci.
Ripensando a quello che ci siamo dette ho pensato a quante volte mi sono sentita priva delle mie fondamenta… il divorzio… la fine di una relazione… la perdita di una persona cara. Il lavoro mi ha sempre dato il senso di appartenenza, di quello che sono capace di fare, della direzione che, attraverso l’indipendenza, posso dare alla mia vita. E così ho iniziato a pensare a quanto la nostra esistenza sia in equilibrio tra seguire la nostra identità o esplorare nuove realtà che spesso ci portano lontano da quello che siamo.
“Tutta la vita ho inseguito l’arcobaleno” ha detto Fabio Novembre durante la cena di beneficenza della Fondazione De Marchi. Si riferiva ai nomi dei figli, Verde, Celeste e Rosso a cui il padre ha dato i nomi che rappresentano il suo modo di vedere la vita, un architetto e designer che non ha smesso di credere ai sogni. Durante la cena è stata battuta un’asta e la maglia firmata da Lautaro, giocatore dell’Inter, è stata venduta a 2000 euro. Cosa spinge un tifoso a donare tanto per una maglietta da calcio? L’identità di un giocatore va ben oltre le statistiche e le prestazioni, rappresenta il complesso intreccio di abilità tecniche e atteggiamenti personali, lo rende unico, distinguibile. Ecco perchè quella maglia aveva valore, così come gli orecchini CUSI con tre carati di diamanti, battuti a 7300 euro, una gioielleria fondata nel 1886 che rappresenta il meglio delle gioielleria italiana.
Nella moda molte aziende si sono perse per strada il loro DNA. Guardavo la trasmissione Far West dove hanno trasmesso un servizio su quanti marchi subappaltano la produzione di accessori a piccoli laboratori per pochi Euro, tra questi Dior, per poi rivendere la borsa a prezzi ben più alti. Questo significa che questi brand hanno perso la loro identità fatta di saper fare, di prestigio, di eccellenza che per il consumatore deve essere un tutt’uno con quanto viene presentato. Andrea Guerra, Ceo di Prada, ha ammesso di aver sbagliato tutto aumentando i prezzi in maniera irragionevole “L’aumento dei prezzi? È il fallimento più totale del nostro lavoro” ha dichiarato al convegno di Altagamma. E anche qui Prada, nata nel 1913 è uscita dalla sua identità ed ha deluso i suoi consumatori. Tornare indietro? Impossibile.
La globalizzazione ha fatto perdere molto di quello che è il valore delle aziende, ma soprattutto del lavoro “fatto bene”. Ho ricevuto più volte un invito da un’istituzione della moda, mandato dal suo ufficio stampa, per partecipare a Roma ad una conferenza stampa. Alla mia domanda se fosse stato organizzato un viaggio stampa mi è stata fatta una telefonata dopo diversi giorni, in cui un imbarazzato ragazzo mi comunicava che erano stati invitati i quotidiani su Roma e alcuni giornalisti erano li già dalla sera precedente, ma che se volevo mi pagavano il treno. “Grazie no”, ho detto io, e ho pensato “Ma cosa mi avete mandato 20 mail a fare? “
Fare l’ufficio stampa non è lanciare un comunicato stampa nel mucchio e pretendere che poi qualcuno abbocchi all’amo e che magari ci pubblichi comunque la notizia. L’identità di un ufficio stampa non si limita all’invio di comunicati, ma si riflette nel modo in cui si costruisce, protegge e promuove l’immagine del suo cliente, creare fiducia e credibilità con i media, rafforzare il posizionamento del cliente attraverso la comunicazione, i giornalisti devono riconoscerlo come una fonte seria e autorevole. Temo che il sovraccarico di clienti eterogenei, l’approccio troppo commerciale o standardizzato e la perdita della missione debbano fare riequilibrare molte strutture, interne ed esterne.
Molto spesso quando vado in giro qualcuno si avvicina e mi chiede ” Ciao, il lavoro tutto bene? Fai qualcosa di nuovo?”. La mia risposta è sempre quella ” Continuo a fare quello che mi rappresenta” . Io con questo mio CHI E’ CHI ho una missione editoriale esattamente come qualsiasi altro giornale, non sono solo un mezzo di informazione ma un punto di riferimento da 25 anni, ho un legame forte con i miei lettori che, anche attraverso questa newsletter, vengono aggiornati e anche provocati dal mio modo di interagire. Per un giornale perdere l’identità significa fare scelte contraddittorie nella linea editoriale, perdere di autorevolezza, scendere a patti con la necessità di aumentare le vendite o il traffico digitale facendo scelte che sacrificano qualità e valori.
Ho molto apprezzato due cose fatte dai miei colleghi in questi giorni. Emanuele Farneti che ha fatto diventare internazionale d La Repubblica con un’edizione inglese da collezione e da quando ho pubblicato la notizia sul sito continuo a ricevere mail da edicole in tutta Italia interessate a vendere la rivista, mail che giro puntualmente a lui e a Giorgio Martelli. Questa è la risposta a chi diceva che le edicole sono morte ( solo in Italia mi vien da dire perchè all’estero ci sono eccome): dare un prodotto interessante per i lettori, che non trovi sul digitale, che ascolti i lettori con uno stile unico. Il secondo giornale che ho apprezzato è stato Vanity Fair che questo week end ha fatto un ‘ “orgia” di intervista con la settima edizione di Vanity Fair Stories. Vanity è molto di più di una semplice rivista, la sua identità si è evoluta nel tempo, ci sono stati direttori diversi, ma è sempre rimasta coerente nel posizionarsi come una voce influente e sofisticata nel mondo dei media. Ma soprattutto la forza di questo giornale sono le interviste, i primi numeri che ci facevano correre in edicola erano proprio legati alle esclusive con i personaggi internazionali, rivelazioni che venivano fatte dalle firme più prestigiose del nostro giornalismo. Ecco ieri ogni volta che mi collegavo su Ig c’era una diretta, a volte erano collegati pochi spettatori, ma ho avuto modo di partecipare senza essere li. In quella baldoria ho invidiato Marta Caramelli e il suo “eye contact” con Stefano De Martino che incalzato da Simone Marchetti ha simulato come si conquista una donna. Marta ci dobbiamo parlare!
A volte mi guardo allo specchio e ho delle crisi di identità, soprattutto adesso che ho fatto un taglio con quelle maledette “tendine” che non vedo l’ora ricrescano, a furia di vederle sui social mi sono fatta convincere in un momento dove, appunto, volevo “vedermi diversa”. Il nostro “io” può cambiare nel tempo, possiamo essere genitori, figli, amici, professionisti, partner, ci vediamo attraverso gli occhi degli altri e questo può creare un senso di disconnessione tra chi siamo e chi pensiamo di essere. Per questo Simona Salvini ha pensato di portarmi due giorni via con lei al Grand Hotel des Iles Borromées & SPA a Stresa, sulle rive del Lago Maggiore, coccolata per 36 ore tra massaggi benessere e servizi a cinque stelle ( siete mai stati nella suite Suite Hemingway con 160 mq di terrazzo ?). Il soggiorno in un hotel può diventare un’opportunità unica per staccare dalla quotidianità, riflettere e riconnettersi con se stessi.
Trovare tempo e spazio per sognare in grande, ma saper pianificare in piccolo. Sono molte le persone che, come me, portano avanti i loro obiettivi a piccoli step, ne parlavo anche con Costanza Caracciolo che con la sua linea Coistel costruisce passo dopo passo la sua brand identity. E con Samantha Dernini Sabbadini che ho incontrato in via della Spiga in occasione dell’inaugurazione dell’albero di Natale di Ralph Lauren, era reduce da giorni di presentazione della sua collezione (mi sono presa on line una camicia con un ricamo molto bella) che ogni anno arricchisce con nuove collaborazioni, cappotti e golfini di cachemire, per creare un total look alle sue famose gonne.
Aristotele diceva “Sapere chi sei è l’inizio di ogni saggezza”… Chi è Chi dico io…