Moda

Ott 13 DOCU-EGO

di Cristiana Schieppati

Viviamo in un’epoca che racconta tutto, ma ascolta poco. Podcast, docu-film, docu-serie, docu-brand: nuovi linguaggi che dovevano restituire verità e profondità, e che invece spesso si riducono a specchi di autopromozione. Tutti vogliono dire, pochi hanno qualcosa da dire. Il risultato? Un’overdose di “io” travestita da cultura, una serialità del racconto in cui il messaggio principale è la visibilità stessa. Sento raccontare storie di persone che hanno la stessa vita dei comuni mortali, che ci raccontano come allattano il figlio, come litigano con il marito, o che nel loro lavoro hanno incontrato quello e questo. Il racconto che una volta facevi all’amica mentre bevevi un caffè al bar o che ascoltavi dal parrucchiere che diventava il confidente e l’amplificatore delle tue storie. La narrazione contemporanea sembra aver smarrito la sua funzione più alta: dire qualcosa di nuovo, non solo dire di sé.

La moda come sempre è la prima a intuire i movimenti profondi della società, ma anche la prima a bruciarli. Oggi racconta sé stessa con la stessa foga con cui un tempo costruiva immaginari collettivi. Un tempo le sfilate parlavano di epoche, oggi parlano di “me”, “noi”, “il brand”, il “creativo”. Non c’è più distanza, non c’è più proiezione: c’è la dichiarazione costante della propria esistenza. E così, anche la moda, linguaggio universale della trasformazione, rischia di diventare autoreferenziale, intrappolata nel bisogno di apparire consapevole invece di esserlo davvero.
La moda “documenta”, “denuncia”, “riflette”, ma raramente rischia. Parla di sostenibilità, ma non rinuncia al ritmo. Parla di inclusione, ma resta selettiva. Parla di pace, ma si nutre del rumore.

Il problema non è la comunicazione, ma la sua inflazione. Tutti comunicano, nessuno elabora. La visibilità è diventata un fine, non un mezzo. Non vediamo più, confusi da troppo rumore.

Vanessa Friedman, che ancora non si è ripresa da quando l’ho fermata alla Pinacoteca di Brera in occasione della sfilata Armani dicendole “Ciao Vanessa so che leggi la mia newsletter, grazie !” ( avrà pensato ma chi è questa ?) .. dicevo… ha intitolato il suo editoriale post sfilate “Why can’t fashion see what it does to Women?“, un titolo provocatorio che sottolinea come nelle recenti sfilate molte creazioni sembrano nascondere, costringere, zittire la donna che le indossa e non è un problema di tessuto ma di etica visiva. Questo per dire che chi controlla l’immagine vince una narrativa e chi la subisce rimane il soggetto passivo. Vanessa chiede alla moda di guardarsi allo specchio per capire cosa produce. E la risposta che emerge, implicitamente è che guarda solo a sé stessa. E’ un sistema che si alimenta di visibilità, che misura il proprio valore in termini di “impatto” , quasi un esercizio di ego, non più di visione.

Nascondere o cancellare una donna è il simbolo di una rimozione simbolica che nasce dall’ego del creatore, dal desiderio di imporsi sul corpo che veste: non crea spazi per le donne, li occupa. Sarà per questo che Luca de Meo, il nuovo ceo di Kering ( ma vi ho detto che lo premio il 16 ottobre? ) vuole interrompere l’egemonia dell’ego creativo: non più spazio illimitato al designer, ma una redistribuzione del potere visivo verso il consumatore reale. In questo modo la moda non parla più solo a se stessa, ma cerca di ascoltare chi indossa.

Victoria Beckam è l’emblema di questo paradosso del controllo dell’immagine. Nel suo documentario appena uscito su Netflix nel tentativo di raccontarsi con sincerità dimostra quanto il sé mediatico sia sempre una costruzione calibrata e strategica. Ma chi se ne frega di vederla in crisi perchè piove prima della sfilata? Ma questo è un problema che abbiamo tutti ogni volta che abbiamo un evento ma non ne facciamo una docu-serie cavolo! Io volevo sentire di come si è sentita quando David l’ha tradita, invece lei mostra quello che serve per sostenere la sua immagine. Volevo che mi dicesse che è anoressica che mangia da anni le stesse cose, che ha litigato con la nuora, che sta andando in menopausa e che non fa più tanto sesso con David! Questo volevamo sapere !

Un’altra categoria ha cambiato pelle nel giro di pochi anni: i giornalisti. Quelli che un tempo guardavano con sospetto i social, che rivendicavano la distanza, l’autorevolezza, la privacy. Oggi si sono esposti in prima persona e sono volti che si raccontano. Abbiamo la voce narrante di Serena Tibaldi che interpreta il suo pensiero per i video di La Repubblica , Stefano Roncato con il profilo @quellidellamoda, lui che non ha nemmeno whatsapp ed Eva Desiderio che posta in tempo reale e si espone su Instagram. Questo è il segno di un mutamento profondo: la credibilità non nasce più dal ruolo, ma dalla presenza. Essere visti è diventano parte del mestiere ( e chi lo scrive lo sa bene, non sto facendone un’accusa), non è ipocrisia ma sopravvivenza. Laddove un tempo si cercava la notizia, oggi si cerca la narrazione come fonte di legittimazione.

In questo cortocircuito anche il matrimonio è passato da momento simbolico a racconto di sé e della visibilità. 180 ospiti hanno assistito alle nozze dello stilista Alviero Martini con il compagno William de Souza, una celebrazione che è un atto di visibilità pubblica con una scelta narrativa, come il colore viola che è stato scelto per tutti i dettagli, dove lo stilista diventa il regista del proprio racconto e la cerimonia una narrazione emotiva, come se fosse un episodio di una docu -serie sulla sua vita, o una puntata di Beautiful.

E vogliamo parlare delle gravidanze? Fin dall’annuncio tutto passa attraverso una narrazione, l’evento del parto, che sarebbe l’apice dell’intimità, è diventato anch’esso oggetto mediatico, ma con limiti precisi. Giulia De Lellis e Tony Effe non hanno mostrato tutto della nascita della loro Priscilla, scegliendo di essere autentici ma con consapevolezza scenica. Nel mondo del docu-ego la maternità diventa contenuto, la donna che si racconta mentre diventa madre nei minimi dettagli, con tanto di prodotti contro le nausee e le smagliature, senza pensare che il miracolo più grande resta l’invisibile, l’interiorità da custodire.

La visibilità quindi è veramente la nuova misura dell’esistenza? Tutti curano la propria narrazione come fosse un brand e la moda, in fondo, aveva anticipato tutto: da sempre crea immaginari per essere guardata. Eppure, proprio nei rari momenti in cui qualcuno sceglie di non mostrarsi, un silenzio, un pudore, un dettaglio non condiviso offrono valore al racconto umano. La sottrazione ci ricorda che il vero potere sta nel trattenere. Cesare Paciotti se ne è andato in silenzio così come la meravigliosa attrice Diane Keaton, senza fare rumore.

Meghan Markle… ops… Sussex, alla sfilata di Balenciaga ha sussurrato qualcosa all’orecchio di Pierpaolo Piccioli davanti a centinaia di fotografi, coprendosi con la mano e quel frammento resta misterioso, irriducibile all’immagine. Forse è tutto li, in quel gesto appena accennato il paradosso del nostro tempo: la potenza dell’immagine che non spiega, che suggerisce, che lascia spazio all’immaginazione. O semplicemente un gesto che ci fa restare attaccati alla narrazione, in attesa di un nuovo episodio di una telenovelas sulla nostra vita.

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