Il genere legato a indagini e misteri affascina da sempre i lettori, ve lo dice una che ha conosciuto il suo ex marito perchè è stata testimone di un omicidio. Lui era a capo della omicidi a Milano, io una studentessa all’ultimo anno di legge. Ho testimoniato in quanto avevo visto un uomo (che poi ho saputo essere un serial killer) buttare una donna sotto la metropolitana (se volete qualche dettaglio ecco qui il link sul serial killer , sul caso è stato scritto anche un libro di Carlo Lucarelli “Serial Killer per conto di Dio”). Era il 1997.
Le storie crime sono spesso enigmi, ci si immedesima nel detective, si formulano ipotesi. C’è un piacere psicologico profondo nel mettere ordine nel caos e arrivare ad una spiegazione. Alla cena di Brunello Cucinelli ne parlavo proprio con alcune colleghe che dalla cronaca nera sono passate alla moda. Parlando del caso Garlasco tornato alla ribalta anche con Belve Crime che ha intervistato Massimo Bossetti , abbiamo ricordato il giallo di Avetrana seguito dalla brava Maria Corbi, mentre Barbara Modesti mi ha confessato che avrebbe potuto condurre Chi l’ha visto. Il crimine parla di potere, paura, vendetta, istinto , giustizia. Ha un meccanismo narrativo che crea coinvolgimento e secondo me, anche se a prima vista sembrano lontanissimi, crime e moda in realtà condividono più legami di quanto si pensi.
Pensiamo alle atmosfere total black, trench da detective, guanti in pelle, occhiali scuri che diventano moodboard per stilisti e stylist. Maison come Alexander McQueen, Givenchy, Rick Owens hanno spesso tradotto in passerella il fascino del gotico, del macabro e della tensione. Per non parlare di campagne pubblicitarie ispirate alla cronaca o servizi fotografici di Helmut Newton. Serie come La Casa di Carta sono diventate icone fashion e merchandising globale. E poi vogliamo sottolineare come nei racconti crime l’abito spesso faccia “il colpevole”… vi dice qualcosa il film di Carlo Vanzina anni ’80 “Sotto il vestito niente“? Il crimine e la moda condividono il concetto di “costruzione dell’identità”: si usa ciò che si indossa per affermare o negare ciò che si è.
In queste giornate così surreali, dove parlare di abiti e tendenze mi è sembrato difficilissimo, all’improvviso su tiktok al posto di video sulla beauty routine sono andati virali i video di chi ti spiegava come vivere in un bunker antiatomico e come sopravvivere in caso di attacco o attentato. E così pensando alla moda come ad un linguaggio universale che parla di sogni, di identità, di ribellione, di eleganza mi sono chiesta che cosa si è inceppato, svuotato, mercificato. La moda è morta? E, se sì, chi l’ha uccisa?
Come in ogni “crime” che si rispetti, ci sono moventi, indizi e – forse – colpevoli. Il primo sospettato? Il fast fashion, che ha portato la quantità a discapito della qualità. Brand che sfornano collezioni ogni settimana, che copiano a ciclo continuo, che saturano il mercato di abiti effimeri, prodotti in condizioni discutibili, e venduti a prezzi irrisori. Il risultato? La moda perde la sua anima e diventa solo consumo. Parlando con Claudio Marenzi nel suo stand di Herno cercavamo di capire come la politica dei prezzi abbia potuto soffocare il desiderio di avere un prodotto. Io ho pensato che la colpa in parte è stata anche dei social network che hanno accelerato il tempo, uccidendo l’attesa, il desiderio, la costruzione di uno stile personale. Tutto è immediato, replicabile, filtrato. Gli influencer hanno sostituito i creativi, e l’algoritmo detta legge. L’originalità è sacrificata in nome dell’engagement.
Il plagio è all’ordine del giorno così come l’evidente sfruttamento di immagini, corpi e culture a fini commerciali. E che dire delle case di moda storiche che svuotano la loro eredità per inseguire il gusto del momento? Le direzioni creative che cambiano ogni due stagioni, le collezioni create da team anonimi anziché da stilisti con una visione chiara. È il sintomo di una moda che ha perso la propria voce per diventare un’eco indistinta.
La moda è morta quando ha smesso di osare. Quando ha preferito piacere a tutti, invece di farsi capire da pochi. Quando ha sostituito la narrazione con la strategia di marketing, l’identità con la viralità. La moda era provocazione, pensiero, rottura degli schemi. Oggi è spesso prevedibile, patinata, funzionale. Ma soprattutto è morta quando la finanza l’ha messa sotto pressione e non è bastato il “Green” ad attrarre investitori e clienti.
Lo “State of the Consumer 2025” di McKinsey uscito a giugno ha analizzato come i comportamenti dei consumatori siano diventati strutturali ed è emerso che trascorrono più tempo in attività solitarie e digitali, la Gen Z che è entrata nel pieno potere d’acquisto spende molto, ma ricorre al credito. Cresce la propensione a scegliere marchi locali e si fanno scelte selettive risparmiando in alcune categorie per spendere in altre. I quattro imperativi strategici per le aziende sono: avvicinarsi al consumatore raccogliendo e usando dati comportamentali ( anche con AI e social listening) per capire e anticipare le esigenze, ottimizzare i prezzi, riadattare il portafoglio prodotti con nuovi modelli di business, investire in infrastrutture tecnologiche per rendere scalabili e personalizzabili le esperienze. Sostanzialmente i brand devono essere presenti dove il consumatore vive digitalmente.
La crisi di identità e di sistema sta portando a svolte radicali, vedi i brand che da settembre riscriveranno le regole del gioco con nuovi direttori creativi e manager. Persino l’arrivo di Luca de Meo in Kering è stato il giallo di cui tutti hanno parlato tra Firenze e Milano, perchè rappresenta un’incognita. Come può un manager passare dall’automotive al lusso? Potrà guidare un’azienda che ha regole, tempi e sensibilità profondamente diverse? Si chiedevano in massa tutti gli addetti ai lavori. Sicuramente occorrerà comprendere il DNA del brand, la sua identità, qui non si entra in produzione ma in cultura, occorre ascoltare i creativi ed agire come un custode del marchio. Io fossi in lui incontrerei one to one tutti coloro che lavorano all’archivio, alla produzione, nelle boutique per capire come combinare efficienza senza uccidere il desiderio. E soprattutto cercherei di dare il tempo giusto alla creatività, ascoltando i designer e unendosi alla loro visione.
Forse la moda sta solo cambiando pelle. Ma prima di scrivere un lieto fine, dobbiamo guardarci allo specchio e chiederci: vogliamo davvero salvare la moda? O ci accontentiamo di vestirne il cadavere? La signora Miuccia Prada ha detto che ci vuole calma e gentilezza, una sfida e una necessità crescente perchè il lusso, oggi, è anche non affannarsi.