“Globale” è una delle parole più usate – e abusate – del nostro tempo. Siamo cittadini globali, viviamo in un’economia globale, lavoriamo per aziende globali, parliamo in inglese anche quando potremmo non farlo. Ma cosa significa davvero essere globali? E, soprattutto, chi può permetterselo?
In teoria, la globalizzazione ha reso il mondo più piccolo, più connesso, più accessibile. Un’idea, un brand, un meme possono attraversare i continenti in pochi secondi. Ma c’è un inganno sottile in tutto questo: globale non significa uguale. Mentre le élite viaggiano leggere tra continenti, con passaporti potenti e carte di credito infinite, milioni di persone restano escluse, inchiodate a confini, a dogane, a visti negati. La globalizzazione, più che unire, spesso separa: tra chi partecipa e chi subisce.
Ne abbiamo avuto un esempio gli scorsi giorni con Jeff Bezos e Lauren Sánchez che si sono sposati tra gondole private, palazzi cinquecenteschi e un’opulenza degna di un film sotto gli occhi del mondo. C’è chi ha ammirato, chi ha invidiato, chi ha ironizzato. L’uomo che più di tutti ha trasformato le nostre abitudini di consumo in una macchina globale, ha celebrato le nozze nella città che simboleggia la bellezza fragile dell’Occidente, una perfetta allegoria del mondo in cui viviamo. Da un lato, il jet set internazionale, tra archistar, magnati, celebrities e miliardari in abiti couture; dall’altro, la gran parte della popolazione mondiale che, con fatica, affronta inflazione, precarietà, mutui impazziti e contratti a termine.
Il divario è evidente. E, oggi, si esprime anche – o soprattutto – attraverso l’estetica. Nel regno dei veri ricchi, quelli per cui il patrimonio è un’eredità più che una conquista recente, lo stile è sobrio, silenzioso, invisibile. È l’eleganza senza marchio: The Row, Brunello Cucinelli, Loro Piana, Valextra, Hermès (ma solo se vintage). Il ricco vero non ostenta: accenna. Parla di scuole, di fondazioni, di restauri. E compra il bello per sé, non per gli altri. Poi ci sono i neo-ricchi, gli imprenditori digitali, i crypto-magnati, quelli dove il lusso è performativo, un po’ come Fedez , che si circondano di donne vestite in silhouette fascianti, spacchi, lustrini e che sono omologate da una “non” chirurgia estetica, quasi sempre vestite Dolce & Gabbana.
Viviamo in un’epoca in cui le diseguaglianze sono diventate spettacolo. Il matrimonio di Bezos non è (solo) gossip: è un manifesto geopolitico. Ci mostra come si sono spostati i centri del potere, ma anche del gusto. Una volta il lusso era cultura, tempo, artigianato. Oggi rischia di diventare esibizione algoritmica: più click, più status.
Ma i ricchi sono simpatici o sono antipatici? Per la mia esperienza ho capito che dipende da come ci sono arrivati e non tanto dal conto in banca. Chi mostra ricchezza per far sentire gli altri piccoli non suscita simpatia, e quando vedi sui social persone che vivono fuori dalla realtà, magari lamentandosi di non trovare posto in business class o di non essere stati trattati da vip, scatta subito l’antipatia. I ricchi che hanno gusto invece sono spesso ammirati, sono quelli che hanno capito che la ricchezza è una responsabilità, restano gentili, curiosi, capaci di parlare con tutti allo stesso modo.
Questo divario si percepisce molto nel mondo della moda, soprattutto tra le persone di potere. Nella moda infatti il potere e la percezione si muovono su un filo sottilissimo tra carisma e freddezza, autorevolezza e arroganza. Anna Wintour è l’esempio perfetto di questa ambivalenza, un’icona glaciale più che globale, tant’è che la notizia che la vede lasciare la direzione di Vogue , pur mantenendo il ruolo di direttrice editoriale globale di Vogue e chief content officer di Condé Nast, ha suscitato un clamore incredibile. Come spesso accade le donne potenti vengono etichettate come “antipatiche”, più facilmente degli uomini. Karl Lagerfeld non era certo un simpaticone eppure era definito geniale. Ad Anna Wintour ( io ancora tremo al nostro faccia a faccia nei bagni di un hotel a cinque stelle) va il merito di aver reso la moda globale, più editoriale e più business. Ha lanciato talenti, imposto standard, gestito potere senza perdere la faccia. La simpatia non è la valuta del sistema moda. La valuta sono la visione, l’autorevolezza e il gusto. Chi riesce a bilanciare queste doti con umanità, ascolto e rispetto è percepito come carismatico. Chi si chiude in una torre d’avorio fatta di esclusività diventa antipatico e spesso lo è davvero.
Essere simpatici non è obbligatorio, ma essere “giusti” si. Tra i miei colleghi ci sono i potenti amati e i potenti temuti, questi ultimi così recepiti perchè sono molto spesso degli attaccabrighe, si lamentano di tutto e fanno domande scomode. Sono viziati dal sistema. Quelli amati sono quelli che si distinguono per delle caratteristiche fondamentali, sanno comunicare senza umiliare e le parole non lasciano ferite ma indicano una strada. Non fingono di ascoltare, ma ascoltano davvero, ti fanno sentire visibile e se devono dire no spiegano il perchè. Un direttore gentile lascia spazio, fa crescere chi ha talento è il motore, non il riflettore. Motivo per il quale nella giuria dei CHI E’ CHI FASHION COMMUNITY AWARDS accolgo colleghi che hanno occhi esperti ma anche cuore ed intelligenza umana, professionisti che sanno supportarti con eleganza, ben sapendo che un grazie sincero, un messaggio d’ incoraggiamento e una chiamata nei momenti difficili sono apprezzati.
Ed è proprio durante l’organizzazione e durante la cerimonia di premiazione degli awards dove le persone si svelano, anche inconsapevolmente. C’è chi mostra gratitudine, chi ha bisogno di conferme, chi compostezza, chi teatralità. Il modo in cui si reagisce a un premio ad esempio la dice molto di più del premio stesso, io ad esempio osservo i vincitori da come guardano la platea, da chi ringraziano per primo, da quanto restano umani in un momento di gloria.
Nei recenti premi che abbiamo consegnato io ed Emanuele Farneti settimana scorsa, i CHI E’ CHI AWARDS SPORT & STILE, mi sono particolarmente commossa per Matteo Piano e Alessia Maurelli, due giovani atleti che hanno lasciato la carriera sportiva gli scorsi mesi e che stanno affrontando una nuova vita non agonistica, poi Rocco Iannone, direttore creativo di Ferrari Style al quale si sono illuminati gli occhi quando ha parlato del suo lavoro e della sfida di trasformare le emozioni di un brand automotive in abiti.
Avete notato anche la gentilezza di Jonathan Anderson quando è uscito sul finale della sfilata uomo al debutto a Parigi? La sua emozione quando ha visto Donatella Versace andargli incontro? Trasformare DIOR a Dior è una scelta di posizionamento e di comunicazione, può suggerire un avvicinamento al pubblico ed è un modo per interrompere un percorso, una forma di understatement strategico. Lui ha dimostrato pudore della creazione dimostrando come la passerella sia una liberazione e non un trionfo personale. La timidezza di alcuni designer non è debolezza, ma una forma di autenticità e controllo, un modo elegante per dire: sono qui ma non sono io il centro.
Essere globali oggi non è urlare al mondo chi siamo, ma decidere chi vogliamo essere mentre tutto intorno corre più veloce del necessario. I gesti pesano più delle parole e la vera eleganza è essere presenti con discrezione , forti con dolcezza, potenti senza dominare. Essere globali ma non troppo significa proprio questo: restare fedeli alla propria misura, anche quando il mondo ti chiede di amplificarti.