Ci sono date che si appuntano da sole, senza chiedere permesso. Non hanno bisogno di essere cerchiate in rosso sul calendario: trovano spazio nella memoria, e lì restano. Il compleanno, la nascita di un figlio, il giorno della laurea, il matrimonio, il primo appuntamento, la morte di un caro. Il tempo personale non segue il calendario ma segue le emozioni, non sono giorni importanti per tutti, ma lo sono per noi.
Sono le nostre ancore, i riferimenti intimi con cui misuriamo la distanza da ciò che eravamo, analizziamo le nostra vita e mettiamo in discussione le scelte che abbiamo fatto fino ad ora. Compriamo un’agenda nuova oppure apriamo un nuovo calendario su google e iniziamo ad annotare cose da fare, ricorrenze, apputamenti. Mia madre è ancora una di quelle che compra i calendari, oggi li ordina su Amazon ma una volta approfittava dei viaggi negli Stati Uniti per prenderne uno per ogni casa, obbligando noi figlie a salire sulla scala per cambiarlo ogni mese perchè erano di quelli che si appendevano dentro una cornice di legno al muro.
Da li ho iniziato ad odiare i calendari, che appena arrivato in cucina mi mettevano l’ansia di vedere a che punto del mese eravamo arrivati, mi servivano solo per ricordarmi quando doveva arrivarmi il ciclo, a volte 23, altre 26 giorni. L’unico calendario che ho sempre amato è quello dell’avvento che mi portava pian piano ad arrivare al giorno di Natale, sono passata da quello con le sole immagini, a quello con i cioccolatini che si comprava regolarmente in Svizzera, poi a quello fai da te con i cassetti o i sacchetti con le sorprese, a quelli dei tempi moderni, frutto del marketing, che ti tolgono la suspense ma che ti permettono di acquistare 24 prodotti beauty a prezzi scontati.
Il Natale, la fine di un anno, sono le date che più mi danno ansia. Non solo perché tornano sempre più velocemente, ma perché obbligano a fermarsi. A guardare indietro. A fare i conti, non con i numeri, ma con ciò che è stato. Mi obbligo così a ripercorrere le date leggere e quelle pesanti e quelle che mi hanno messo alla prova.
Un inizio inatteso, una perdita, una svolta professionale, una delusione, una rinascita silenziosa. Alcune le ricordiamo con gratitudine, altre con fatica. Ma tutte, senza eccezione, ci hanno cambiato.
A fine anno non serve fare promesse roboanti. Serve riconoscere il valore del tempo attraversato. Dare dignità anche ai giorni storti, a quelli che non posteremmo mai, ma che hanno costruito il nostro carattere, il nostro sguardo, la nostra voce.
Per questo nel mondo della moda i calendari sono così importanti, sono giorni che appartengono a un sistema intero che crea, performa e organizza la sua esistenza. Non sono giorni qualunque, ma date preparate per mesi in cui si tengono sfilate, presentazioni, conferenze stampa. Il SAVE THE DATE arriva sempre prima di tutto ed ha un peso diversa per chi sfila, chi osserva e chi racconta.
Quest’anno la moda è stata segnata dalle decisioni, l’anno in cui le case di moda hanno parlato attraverso i loro silenzi. Dimissioni, avvicendamenti, attese. E’ l’anno in cui la moda ha capito che meno è una necessità, non una scelta.
Tra le date che voglio ricordare c’è il 10 dicembre, giorno in cui la cucina italiana è stata riconosciuta dall’Unesco patrimonio dell’Umanità. Ricordo ancora quando Maddalena Fossati Dondero in un nostro incontro durante la pandemia mi annunciò questo suo desiderio, perchè è stata lei la promotrice della candidatura, lavorando insieme a istituzioni, chef e studiosi per portare avanti il progetto in questi anni. Per Maddalena il riconoscimento non riguarda solo i piatti ma i rituali, le relazioni, i tempi e i gesti che accompagnano la preparazione e il consumo di cibo. Questa data cambia la prospettiva, dice che il valore sta nella ripetizione consapevole, non nello straordinario, ma nel quotidiano fatto bene.
Ed è qui che il messaggio si intreccia con la moda. In un sistema che vive di stagioni, di debutti, di annunci continui, questa data introduce un contempo prezioso: la legittimazione della continuità come valore. Non è un caso se eventi come i CHI E’ CHI AWARDS nascono proprio per questo: non celebrare il momento più rumoroso ma quello più significativo, premiare chi costruisce legami, chi lavora sul tempo lungo. La vera autorevolezza oggi non sta nell’essere ovunque, ma nell’essere riconoscibili.
E’ impossibile non pensare alla chiusura di Fashion Magazine come una data significativa che segna un percorso che molti stanno facendo in questi anni, quello della resistenza. Ed è esattamente qui che riconosco il mio modo di lavorare. Non ho mai creduto alla moda come successione di momenti virali ma ho lavorato sulle persone, sui percorsi, sulle storie che non finiscono in una stagione.
Le date non sono solo numeri. Ci tengono legati a ciò che conta davvero: le persone, le scelte, il coraggio di restare fedeli a sé stessi anche quando è difficile. E per questo il mio lavoro, oggi più che mai, sta nel tenere insieme memoria e presente, costruire continuità in un sistema che vive di interruzioni. La moda ha bisogno di essere raccontata non solo per ciò che appare, ma per ciò che regge nel tempo. E forse questa è la vera data da segnare: quando capisci che il tuo modo di lavorare non dipende più da una struttura, ma da una visione. Le testate possono finire, i calendari cambiano, ma chi lavora sul tempo lungo, sui legami, sulla cultura che resta, non smette.
Per questo quando ripenso ad alcune cose che mi hanno fatto male nel 2025 le segno come date da ricordare. Il giorno in cui ho sentito dire “i vincitori vengono per la giuria” come se il lavoro, la visione, la costruzione non esistessero. Come se il premio non fosse un percorso ma una scorciatoia. E’ stata una frase piccola ma ha fatto male perchè riduce tutto. Il giorno in cui non sono stata riconosciuta, non per un titolo ma per quello che faccio davvero, fa male quando chi guarda vede solo la superficie. Il giorno in cui mandano i ringraziamenti a tutti tranne che a te, la mancanza di un gesto può essere un’assenza rumorosa. Il giorno in cui senti il tono stizzoso di qualcuno che ammiri, un incontro sbilanciato, una tensione inutile. Il potere che si manifesta nel tono, non nel contenuto.
Ho capito che il dolore nel lavoro non arriva mai dai grandi fallimenti, ma dai dettagli, dalle frasi dette male, dalle esclusioni sottili. Il mio modo di lavorare non è sempre comodo per tutti, e va bene così. Il 2025 mi ha tolto illusioni, ma mi ha lasciato qualcosa di solido: la certezza di chi sono io nel sistema anche quando il sistema non restituisce subito.
Che questo Natale , e questo passaggio d’anno al 2026, siano allora un gesto semplice: riconoscere le date che ci hanno fatto bene, e ringraziare anche quelle che ci hanno insegnato qualcosa. Perché alla fine, è da lì che nascono i nuovi inizi.