Moda

Gen 14 L’ESTEROFILIA DI PITTI UOMO E IL CAMBIO DATA. PIU’ BANDIERE MENO PRESENZE.

Collaboratore

Da un certo numero di edizioni, il primo giorno di Pitti Immagine Uomo non registra mai quel pienone, che, invece, in qualche modo si verifica alla seconda giornata. Quest’anno, poi, la kermesse della moda maschile è iniziata proprio a ridosso dell’Epifania, che, pur se tutte le feste si porta via, mantiene quella (in)sana voglia di indolenza oltre che coincidere con i primi giorni di saldi, momento vitale per molti dettaglianti. In tanti, in Fortezza, hanno guardato i prossimi calendari per rasserenarsi scoprendo che l ‘edizione invernale 2021 di Pitti cadrà il 12 gennaio.

 

Giubilo e aspettativa nel futuro per le date del nuovo anno, ma, nel frattempo, la manifestazione ha registrato un calo di circa il 10% delle presenze totali rispetto allo scorso gennaio. I compratori presenti sono stati in tutto 21.400, di cui più di 8.300 esteri. E tra questi ultimi spiccavano gli occhi a mandorla. Il Giappone, infatti, risalta tra i mercati di riferimento dell’edizione appena conclusa, tanto da avere un desk appositamente riservato all’accoglienza. Per fare un altro esempio, Herno, il cui presidente Claudio Marenzi  è anche presidente di Pitti Immagine e di Confindustrua Moda, ha come primo mercato per i suoi meravigliosi capospalla proprio il paese del Sol Levante.

 

I visitatori stranieri erano molti, forse anche a causa di una maggior lena post festività o di ricorrenze diverse da quelle nostrane, ma negli stand non aspettavano altro di far ordini almeno in inglese. Quindi, porte aperte al compratore, buyer, department store straniero, che nel giro di mezz’ora può acquistare tutto ciò che la chiusura, ahinoi, di molti multimarca italiani e, a volte, europei, sembrava lasciare invenduto e ricerca di addetti vendite che vadano oltre la conoscenza dell’accento anglosassone o francese. E, di rimando, si studiano collezioni che abbiano un fit e un gusto un po’ meno europacentrico o su base italiana si innestano gusti orientali, come nel caso delle collaborazioni presentate da Lardini a Pitti o da Blauer a Milano, per citarne due. Perché, ovviamente, vince chi compra (di più).

 

Riavvolgendo il nastro, però, fino alla fredda mattina del 7 gennaio e al momento dell’inaugurazione in pompa magna della 97a edizione di Pitti Immagine Uomo c’è qualcosa che non quadra. Il sindaco di Firenze, Dario Nardella, ha conferito il fiorino d’oro a François-Henri Pinault, ceo della gruppo francese del lusso Kering. Applausi d’ordinanza, ma, poi, più di qualcuno ha storto la bocca per lo sventolio di stendardi francesi nel profondo del territorio della moda italiana, per di più in un’edizione che aveva come tema portante la bandiera come simbolo di appartenenza e in molti perdevano la voce pur di sottolineare l’artigianalità made in Toscana dei loro prodotti.

 

Così, si sono riaperti i soliti discorsi su quanto il made in Italy non esista più, perché chi detiene la proprietà sono fondi e colossi esteri, che stanno acquistando tutto con la loro potenza economica e di mercato. Parole trite e ritrite innaffiate di nazionalismi e nostalgie, ma poco costruttive.
Il monopolio, nella moda, così come negli altri campi, non è mai un bene. Nello specifico, trovare le case di moda contrapposte in due o, al massimo, tre grossi blocchi probabilmente non fa bene alla creatività, alle piccole realtà, a giovani che vogliono emergere e anche al singolo acquirente.
Però, la moda e i tempi richiedono spirito di adattamento e di trasformazione. L’Italia e la sua forza, forse, potrebbero essere menti creative (tanto che alla guida di molte case di moda anche straniere c’è del genio tricolore) e capacità artigianali. Non a caso, è recentissima la notizia che Saint Laurent, entro il 2022 aprirà a Scandicci una nuova fabbrica di pelletteria. Si stima che l’operazione frutterà 300 posti di lavoro e credo che molte delle assunzioni saranno proprio local.

 

Il signor Pinault e il signor Arnault, per citare i due più importanti, è vero che comprano aziende nate e fondate in Italia, che fanno parte della nostra storia, ma molte lavorazioni rimangono, necessariamente, entro i confini della Penisola, beneficiando di quella linfa vitale che si chiama erogazione di fondi, senza la quale nemmeno la più geniale e sfrenata creatività può nulla.

 

Forse, chi geme su un made in Italy che non c’è più dovrebbe ricordare, in primis, che finché il denaro gira è sempre un bene. Pragmatismo? Forse. Ma è lo stesso che ci fa mandare i nostri figli a studiare e a lavorare all’estero, pur con qualche comprensibile magone. Perché il mondo è cambiato e, per certi aspetti, qualche confine e qualche muro è saltato, anche se ogni tanto qualcuno vorrebbe farci credere il contrario.

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