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Mag 01 SONO PASSATI 26 ANNI E SEMBRA IERI: AYRTON NEL CUORE

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IMOLA, 1° MAGGIO 1994: DOPO L’URTO VIDI AYRTON RECLINARE IL CAPO E CAPII CHE IL GRANDE CAMPIONE CI AVEVA LASCIATO

 

Il 1° maggio 1994 ero a Imola, come tante volte per tanti anni. Si disputava il GP di San Marino e Ayrton Senna si era lamentato con il team per certe cose che, sulla sua Williams, non gli piacevano. I tecnici erano intervenuti e Ayrton aveva conquistato la pole position. Era partito bene, ma dopo sette giri era finito contro le protezioni a 270 all’ora. Ero in sala stampa e guardavo la gara insieme a Celso Itiberé Fratini, un carissimo collega brasiliano, vice direttore di ‘O Globo, quotidiano di Rio de Janeiro, il più autorevole del Brasile. Senna guidava la gara e stava battagliando con la Benetton di Schumacher, quando subito dopo il rettilineo del box era uscito di pista battendo violentemente sul guard rail e fermandosi sull’asfalto della via di fuga. Ero rimastro allibito, uno scontro così forte (a non quasi frontale) lo avevo visto fare da Piquet e da Berger che si erano stampati qualche anno prima all’incirca nelle stesso punto. Il sabato precedente era morto l’austriaco Ratzenberger durante le prove e Ayrton era rimasto molto colpito dal fatto. Quasi un presentimento.
Subito dopo l’impatto con le protezioni avevamo notato il casco giallo di Senna compiere uno o due leggeri movimenti. Poi il capo era reclinato e sul video era comparso un tecnico biondo della Williams chinare la testa in modo doloroso. Mi rivolsi verso Celso egli dissi: “Celso, Ayrton è morto”. Lui mi guardò e scattò come una molla, urlando: “No, Ayrton non è morto, Ayrton non può morire”. Poi si mise a piangere mentre, in basso, i medici stavano portando al pilota un soccorso rivelatosi, alla fine, inutile. Come inutile fu la disperata corsa dell’ elicottero verso l’ospedale di Bologna nell’estremo tentativo di riuscire in qualche modo a salvarlo.
Dopo quel giorno, la magistratura mise sotto inchiesta la Williams, perché si era appurato che il piantone dello sterzo della monoposto era stato modificato. Autosprint pubblicò la foto della sterzo spaccato, vicino ai piedi di un soccorritore. Ma ad uccidere Ayrton era stata il braccetto di una sospensione che era entrato nel casco dalla visiera e gli si era conficcato in un occhio.

Da quell’incidente, la formula 1 non è più stata la stessa, qualcosa le è sempre mancata come le era mancata con la morte di Gilles Villeneuve, avvenuta a Zolder l’8 maggio di 12 anni prima. Dopo 25 anni, il ricordo di Ayrton e di Gilles è ancora vivo. Anni dopo, mi recai al cimitero del Murumbì, a San Paolo., dove il grande campione è sepolto. E allora scrissi, per il Corriere della Sera, l’articolo che oggi propongo.

 

SULLA TOMBA DI AYRTON CON TUTTO IL BRASILE

 

Tanti anni fa, andai a trovare Ayrton Senna che riposava nel cimitero paulista del Murumbì. Fu un’esperienza straordinaria, che mi insegnò molto sull’amore e sul rispetto dei brasiliani per il grande pilota.
Non fu difficile trovare la tomba di Senna: in cima a una collinetta sventolava la bandiera gialloverde, simbolo del Brasile, attaccata a una canna lunga e sottile, che si piegava alla brezza, piantata vicino alla targa di rame che reca il numero “0011”, il numero della pace di Ayrton Senna.
Mille splendidi fiori, molti dei quali gialli come il colore del casco, che nel momento supremo non riuscì a difenderlo, circondano l’albero che sorge vicino alla tomba del grande campione scomparso tre anni fa, il primo maggio 1994, durante il Gran Premio di San Marino sul circuito di Imola.
Attaccata con la colla al tronco dell’albero, la foto della Williams numero 2 con dentro il fuoriclasse Ayrton. Un bellissimo binomio, che stride con la dolorosa realtà di un camposanto e di un ammasso di rottami in mano ai giudici di Imola.
“Nessuno mi può separare dall’amore di Dio”, c’era scritto sulla targa ramata sulla tomba del tre volte campione del mondo. Torna, vivissimo, un ricordo con Ayrton, vestito in tuta grigia su un aereo che rientrava dall’Australia. Discutevamo di Dio, lui lo faceva con quella sua fede inattaccabile. Una fede che molti non comprendevano, non riuscendo in nessun modo ad accettare quel suo misticismo che faceva a pugni con la sua natura di pilota aggressivo, di grande combattente della pista. E così lo deridevano.
Vicino a Senna, col numero 0012, riposa un bambino, Marcelo De Aroujo Contier: è morto, a soli due anni, il 29 luglio 1989, lo stesso giorno in cui Ayrton Senna conquistò la pole position nel Gran Premio di Germania, corsa che il pilota brasiliano vinse il giorno dopo.
“Vuoi farmi un’intervista? Aspetta due minuti e poi parliamo”: mi tornò in mente quella voce, un italiano quasi perfetto ma con l’inconfondibile inflessione portoghese.
E quella risata quando Senna disse per la prima volta nella sua carriera: “Magari domani vinco”.
Erano i tempi in cui Ayrton, ancora acerbo, si divertiva a fare il compagnone, a fermarsi a ogni capannello di giornalisti per ascoltare se si parlasse di lui. Firmava autografi a ripetizione, senza tirarsi mai indietro, cercando anzi il pretesto per diventare popolare fra i tifosi. Fatto, questo, che gli procurò anche una certa antipatia fra i colleghi. Non era ancora il campione del mondo, avrebbe scoperto più tardi quanto sarebbe diventata dura la popolarità in Formula 1.
Nell’85, in Portogallo, conquistò la prima delle sue innumerevoli pole position. E vinse anche la corsa. I ricordi volavano, sulla collina verdissima, mentre la bandiera si agitava a scatti, sotto la brezza. Una decina di persone camminavano lievemente sull’erba.
Due giovani, abbracciati, pregavano in silenzio. Lei piangeva, lui cercava di consolarla: le lacrime scivolavano sulle spalle. Era un contrasto irreale, che faceva male, fra la pace che si avvertiva davanti a quella tomba e la guerra che si combatteva in tribunale a Imola. Mi fermai a pensare se fosse stato possibile trovare una causa, una qualunque causa diversa dalla passione e dal destino, che avesse portato Ayrton all’ultimo traguardo. E mi domandai quale vita starebbe vivendo quel meccanico che gli aveva saldato lo sterzo maledetto. Potrà mai confessare, magari solo a se stesso, di aver commesso il tragico errore che ha causato la morte di Senna?
Nel finale della propria vita, Ayrton era diventato scorbutico, nervoso, sopportava malamente di doversi concedere ai media, alla popolarità. Cercava spazi diversi: gli aerei, le barche, il mare del suo Brasile. Una foto piccola, sull’albero, sotto due rose gialle. Ayrton sembra avere un’espressione trascendente. Sotto il suo viso, in tedesco, una frase di Lord Byron: “Tu vivi una vita eterna e non sarai mai meno di quello che sei stato”.
Al cimitero di Morumbi si poteva entrare in auto, fuori qualche chiosco vendeva fiori. All’interno, un gruppo di agenti vegliava sulla serenità dei morti e dei vivi. Quanta gente viene a pregare sulla tomba di Ayrton?, chiesi a un guardiano. “Tanti”. Ma quanti? “Milioni”. Ma quanti milioni? “Tutto il Brasile. E anche di più”.

 

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